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"A Macomer fanno la Dreher": la Storia della Birreria e le cause che hanno portato alla chiusura

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La ricostruzione della vicenda della Birreria Dreher di Macomer, fatta dal Consigliere Giuseppe Ledda nel corso dell'ultimo Consiglio Comunale

Sono stato costretto a chiedere la parola per fatto personale, perché intendo una volte per tutte rispondere alle affermazioni denigratorie nei miei confronti riferite alla vicenda della birreria, riecheggiate anche di recente in questo Consiglio, sulle quali purtroppo Lei Signor Sindaco si è particolarmente distinto anche in occasione di altre sedute, arrivando perfino ad affermare falsamente che io rivestivo la carica di sindaco quando la fabbrica venne chiusa (in realtà il Sindaco era l’ing. Fulvio Castori ed io ero un consigliere di minoranza al primo mandato); od insinuando che io non avrei difeso fino in fondo una fabbrica dalla quale - come lei ebbe l’ardire di affermare - io ho avuto tutto.

Temi questi usati ed abusati nel corso degli anni per gettar discredito sulla mia persona soprattutto in campagna elettorale, inclusa l’ultima per le elezioni comunali e forse il fatto che se ne sia parlato in questa sede getta un fascio chiarificatore sugli ambienti politici da cui origina questa e non solo questa vergognosa campagna.

Io dalla birreria ho avuto un posto di lavoro che è durato per tutta la mia vita professionale - salvo i periodi di aspettativa non retribuita per cariche sindacali ed istituzionali - essendo stato assunto come impiegato amministrativo nel 1968, una settimana dopo il diploma, a seguito della richiesta dei neo diplomati con i voti più alti, che l’azienda presentò all’Istituto Satta. Nel 2007, dopo quasi 39 anni ho concluso la mia esperienza professionale in quel gruppo – più esattamente con la Sarbe che era subentrata per la produzione di bibite ed acque minerali – come impiegato di 1° livello e senza false modestie non nascondo che - al pari di tanti altri validi macomeresi che sono diventati dirigenti o quadri aziendali di quel gruppo industriale – avrei certamente potuto ambire a ruoli aziendali ben più gratificanti, se non avessi fatto da subito a vent’anni una chiara scelta di campo col mio impegno nel sindacato.

Con la speranza che possa servire anche ad altri per discutere di questo argomento con maggiore cognizione di causa e con maggiore onestà intellettuale, piuttosto che con le insinuazioni gratuite, metto a disposizione Sua e del Consiglio una ricostruzione di quella importante vicenda, approfondendo sia i fatti reali, sia le responsabilità politiche.

 

 

LA VERTENZA IN DIFESA DELLA BIRRERIA: I FATTI E LE RESPONSABILITA’ POLITICHE

 

La fabbrica venne avviata agli inizi degli anni ’60 da un gruppo di imprenditori macomeresi con la produzione su licenza danese della birra THOR. Pochi anni dopo essi la cedettero al gruppo Dreher che venne successivamente acquisito dalla multinazionale olandese HEINEKEN.

Fin dall’inizio le potenzialità della birreria sono sempre state condizionate negativamente dalla scarsa disponibilità dell’acqua, soprattutto da quando – una volta acquisita dalla DREHER – crebbero notevolmente i volumi di produzione, passando da 80.000 a circa 200.000 ettolitri.

La birra è un prodotto con una forte stagionalità ed i picchi della produzione – e dei consumi d’acqua – si concentrano nei mesi primaverili ed estivi. La dotazione idrica di Macomer in quel periodo era a mala pena sufficiente per gli usi civili, per cui ogni anno si poneva il dilemma di quanta acqua togliere d’estate alla popolazione, per consentire alla birreria di produrre, con polemiche e guerre a non finire.

Né l’ESAF, né coloro che all’epoca amministravano il Comune ed il Consorzio industriale seppero trovare soluzioni adeguate, nonostante l’impegno della Dreher a mettere a disposizione di tali enti un finanziamento di mezzo miliardo di lire finalizzato alla risoluzione definitiva del problema . Sarebbe bastato un studio idrogeologico serio del territorio, per scoprire – come avvenne quando era ormai troppo tardi – che attorno a Macomer, in una fascia che va da Mulargia a Bara, Sa Uddidorza e Scalarba, c’è un mare d’acqua, facilmente captabile con le trivellazioni.

La carenza d’acqua ha bloccato per quasi vent’anni i programmi di investimento che la Dreher voleva effettuare per potenziare lo stabilimento, ma che venivano sistematicamente rimessi nel cassetto, in assenza di garanzie da parte degli amministratori locali sulla possibilità di mettere a disposizione le risorse idriche necessarie.

Questa situazione ebbe un peso determinante quando a metà degli anni ‘80 lo scenario regionale ebbe una svolta cruciale. Infatti la famiglia Capra – proprietaria dell’ICHNUSA - dopo aver ammodernato la fabbrica di Macchiareddu con i finanziamenti regionali, mise in vendita il pacchetto azionario di controllo della società. Avevano già fiutato che anche il settore birra stava andando incontro ad una forte concentrazione e che le piccole aziende sarebbero state le prime a soccombere.

Heinecken, che naturalmente vedeva come fumo negli occhi la possibilità di ritrovarsi come concorrente in Sardegna un altro gruppo forte a livello nazionale, fece l’offerta più vantaggiosa ed acquisì anche l’ICHNUSA, ritrovandosi così proprietaria in Sardegna di due fabbriche di birra che producevano insieme, più o meno in parti uguali, circa 370.000 ettolitri, quando già a livello nazionale la produzione media per singolo stabilimento era di 500.000 ettolitri. Se l’ICHNUSA l’avesse acquistata un altro gruppo, ad esempio PERONI, le due fabbriche avrebbero potuto continuare a sopravvivere e competere; in mano ad un unico proprietario era evidente che prima o poi una era destinata a soccombere.

Macomer nel confronto partiva da una condizione di grave svantaggio. Mentre la fabbrica di Macchiareddu era già stata ristrutturata e potenziata e con pochi investimenti poteva essere in condizioni di far fronte a tutta la produzione, lo stabilimento di Macomer – per le ragioni che ho spiegato sopra – era in forte ritardo. Infatti il cuore della fabbrica – sala cottura e cantine di fermentazione e deposito – aveva impianti obsoleti; e solo in quel periodo era iniziato il potenziamento dell’imbottigliamento. Senza considerare poi la ben differente forza politica dei due territori ed il fatto che circa la metà della popolazione della Sardegna si concentra intorno a Cagliari e con essa anche il mercato di consumo della birra.

 

La vertenza per salvare la fabbrica

 

Una vertenza quindi estremamente difficile, che però venne affrontata dai lavoratori, dai sindacati locali, dalla popolazione, dal Comune e dalla Provincia con grande determinazione. Per le lotte condotte nell’autunno del 1988 41 dipendenti vennero rinviati a giudizio – io ero il primo della lista – per blocco dei cancelli, per occupazione di fabbrica, violenza privata e per blocco stradale; tutti procedimenti per fortuna finiti in prescrizione od amnistiati.

Per mesi in fabbrica si lottò con forme di sciopero articolato ed a scacchiera che fecero scuola nel sindacato: scioperavano solo i reparti in grado di colpire gli interessi aziendali, mentre tutti gli altri lavoratori si quotavano per sostenere il salario dei compagni che attuavano lo sciopero. In occasione di quella vertenza e di uno sciopero generale ci fu a Macomer la più grande e forte manifestazione unitaria mai vista, con tutta la città in piazza, dalle fabbriche, ai negozi, alle scuole e servizi. Il motore della lotta erano ovviamente i lavoratori fissi e stagionali della birreria ed il Consiglio di Fabbrica del quale io facevo parte come rappresentante degli impiegati. Il consiglio comunale di Macomer fu anch’esso pienamente impegnato in quella battaglia, convocandosi alcune volte davanti ai cancelli della fabbrica e con la presenza del sindaco ai numerosi incontri che si tennero in sede ministeriale.

Non mancarono ovviamente sbandamenti e divisioni anche tra i lavoratori, come in tutte le vertenze difficili. Diversi di loro, preoccupati del loro futuro, accettarono subito gli incentivi aziendali per trasferirsi a Cagliari. Ci furono anche limitati casi di crumiraggio e forse da quell’ambiente vengono le notizie distorte su quella vertenza che poi altri hanno usato (e stanno ancora usando) in modo strumentale. Altri punti di debolezza erano rappresentati dal sindacato regionale e nazionale di categoria - apparentemente unitari, ma in realtà schierati con molto realismo a favore di Cagliari - e dal consiglio di fabbrica dell’ICHNUSA: mentre a Macomer si scioperava, spesso a Macchiareddu si facevano gli straordinari. Una vera solidarietà tra i lavoratori delle due fabbriche poteva essere la chiave di volta della vertenza per costringere l’Heineken a mantenere in vita le due fabbriche, ma non ci fu e forse non poteva esserci, considerati gli interessi in campo.

Alla fine quella lotta si concluse con risultanti comunque importanti, se si tiene conto della complessità della vertenza, del fatto che un fronte sindacale diviso si misurava con un colosso multinazionale, in una delle prime vertenze di concentrazione produttiva. L’accordo che dopo mesi di lotta e di estenuanti trattative venne firmato al Ministero dell’Industria dai sindacati nazionali e regionali prevedeva che a Cagliari si sarebbe concentrata la produzione birraria ed a Macomer il polo delle bibite, con l’avvio della produzione di acqua minerale e bevande e con il trasferimento a Macomer dell’impianto di imbottigliamento della Coca Cola operante a Macchiareddu e sempre di proprietà dell’Heineken.

Questa parte fondamentale e qualificante dell’accordo non venne poi rispettata, adducendo un veto a spostarsi da Cagliari da parte della Coca Cola che peraltro qualche anno fa ha dismesso anche lo stabilimento di Macchiareddu. Di conseguenza, l’unica attività che rimase a Macomer fu quella della SARBE, gestita inizialmente direttamente da Heineken e poi ceduta a privati che hanno cessato l’attività alcuni anni fa. A tutti i dipendenti della birreria che non accettarono di trasferirsi a Cagliari o non vennero ricollocati nella SARBE, l’Heineken corrispose un incentivo che garantiva le retribuzioni nette dalla data di cessazione del lavoro fino a quella di pensionamento.

 

Le responsabilità politiche

 

Ci furono responsabilità politiche sulla chiusura della birreria ed a chi dovevano essere attribuite? Mi sembra che in materia i Macomeresi non abbiano avuto dubbi, collegando la chiusura della birreria alla vera causa di fondo: la mancata soluzione dell’approvvigionamento idrico della fabbrica.

Infatti,alle prime elezioni comunali successive alla vertenza, quelle del 1990, la DC che governava ininterrottamente Macomer fin dal dopoguerra, subì un pesante ridimensionamento e quel voto creò per la prima volta le condizioni numeriche per una maggioranza alternativa. Che infatti si concretizzò dopo solo due anni nel giugno 1992, quando una parte della DC costrinse alle dimissioni il Sindaco Sechi ed in Consiglio comunale si costituì la prima giunta laica e di sinistra che ebbi l’onore di guidare, cosa che qualcuno – che pure è noto per cambiare spesso idea - non mi ha mai perdonato, quasi si sia trattato di un offesa indelebile al casato.

Può essere utile ricordare che entrai per la prima volta in consiglio comunale del 1985, come consigliere di minoranza, con 340 voti di preferenza; nel 1990 venni rieletto con 912 preferenze, risultando il più votato in città, anche rispetto al Sindaco uscente Castori ed a quello entrante Sechi. In quello stesso anno si votò contemporaneamente per le elezioni provinciali e venni eletto nel collegio MACOMER UNO e fu la prima volta nella storia per un esponente della sinistra. Nel 1994 - due anni dopo la mia elezione a Sindaco – la giunta cadde per la defezione di tre consiglieri di maggioranza (il sindaco allora veniva eletto dal Consiglio Comunale) ed il Comune venne commissariato fino alle elezioni successive del 20 novembre 1994, nelle quali venni rieletto direttamente dai cittadini col 62% dei voti. Credo che ce ne sia a sufficienza per poter affermare che i Macomeresi avevano le idee molto chiare su chi aveva tutelato in quegli anni gli interessi della Città.

 

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