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LA CHIESA DI SAN BACHISIO A BOLOTANA

di Giorgio Bussa

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 Se si guarda la chiesa di san Bachisio dall’esterno, arrivando dal centro abitato che neppure quattrocento anni fa, ai tempi della sua costruzione, era lontano, ciò che può colpire è che la facciata, anziché a ovest, sia rivolta a nord-ovest, dove c’è la parte bassa del paese con la parrocchia, avendo i monti sullo sfondo. Se invece si entra all’interno e si prende confidenza con l’ambiente, una sensazione di rarità o di unicità nasce da strutture architettoniche ispirate a stili ed esigenze diverse; come pure dalla presenza di una vasta serie di bassorilievi, divisi, anche per il contenuto, in due parti: in basso si trovano nelle paraste tra una cappella  e  l’altra poco sotto una cornice, in alto scandiscono gli archi trasversi che contornano la volta a botte.   
    Fra i bassorilievi uno, singolare per più di una ragione, ha caratteristiche che diventano emblematiche dell’intera chiesa. Può essere definito un bassorilievo diviso in tre parti o considerato come un insieme di tre bassorilievi. Si trova sopra l’arco dell’ultima cappella a sinistra, fuori dallo schema secondo cui sono disposti gli altri.  Al centro c’è una strana versione della crocifissione. Il Cristo è nudo, e la sua nudità non è ricoperta, come nei quadri dei pittori, da un perizoma; con lui ci sono due donne, accovacciate ai lati ai suoi piedi, che guardano verso di noi, come se il loro interesse fosse distolto  dalla figura del crocifisso e rivolto altrove. In alto e in basso ci sono figure vagamente somiglianti  per la loro forma fisica: la sfera del sole emersa a metà coi suoi raggi e il faccione di Bacco, il dio pagano del vino e dell’ebbrezza. Secondo la prospettiva da cui si guarda alla scena centrale,le due figure possono essere ricondotte ad essa in  funzione simbolica  o assumere significati propri che la ignorano.
   In antiche preghiere, che si recitavano per la cerimonia del battesimo, il Cristo era chiamato “il sole della resurrezione”; egli  illuminava i nuovi fedeli  e mediante il rito dell’immersione, segno dei due momenti di morte e rinascita,li introduceva a una nuova vita redenta dal peccato. Il Cristo e il sole sorgono insieme, all’alba del terzo giorno, quasi animati da una stessa forza, per cui ottengono la vittoria uno sulla morte l’altro sulla notte. Con la resurrezione il ciclo raccontato dalla fede cristiana si compie, e il bassorilievo esprime la relazione,  quasi  l’automatismo  tra i due avvenimenti,  rendendo contigue le due rappresentazioni e mettendo il simbolo del sole che risorge come un suggello sopra l’episodio  della morte.                   
   Di diverso genere è il problema della corrispondenza tra la scena centrale e il faccione di Bacco. Questo dio si chiamava in origine Baki, e dall’Asia Minore, dov’era nato, il suo culto si era diffuso nelle terre del Mediterraneo.  I greci, orgogliosi a ragione dei loro miti, lo sostituirono con una divinità autoctona chiamata Dioniso; i romani più pratici si limitarono ad adattarne il nome alla loro lingua, chiamandolo Bacchus. Egli rappresentava l’aspetto orgiastico e irrazionale della vita, e questo gli dava un ruolo autonomo fra le divinità. Quando arrivò il cristianesimo, si trovò in radicale contrasto con la nuova fede, che si diffondeva nella crisi dell’impero; si può dire che l’essenza del paganesimo era contenuta nella personalità di questo dio.  In Sardegna se ne era conservato, con un adattamento, il nome Bakis; e quando, in periodo bizantino, arrivò la fama di un santo orientale chiamato Bacchus, il nome del dio era così importante che, almeno nel linguaggio popolare, si comunicò al santo, o meglio ne riportò il nome indietro alla forma originaria. Nel bassorilievo, se si vuole spiegare la presenza del faccione del dio,  la posizione può diventare, ancor più che per il sole, la chiave per la comprensione. Il dio viene messo in basso, perché lo spirito pagano e i vizi che rappresenta, implicitamente condannati dalla necessità del sacrificio e della redenzione,  devono essere sottomessi  alla nuova fede.       
  Il quadro interpretativo  assume un aspetto diverso se si considera che la  scena centrale è rappresentata fuori dai canoni  comunemente seguiti  nei  luoghi di culto. La crocifissione, come se fosse un evento marginale, viene tolta dai punti  della chiesa sui quali si concentra l’attenzione dei fedeli,  e viene collocata sopra l’ingresso di una delle varie cappelle laterali. Anche il mezzo  usato è piuttosto inusuale, essendo i bassorilievi più adatti a rappresentare motivi ornamentali e floreali o figure che manifestano gioia e vitalità, una volta che hanno fatto la fatica di emergere dalla pietra. A tutto ciò si aggiunge la nudità del Cristo, un particolare pressoché ignorato nell’arte. La pittura, che pure ha rappresentato nudo il Cristo bambino per affermare la sua umanità, ha evitato di ripetere questa scelta nella crocifissione. Se si vuole trovare fuori dall’arte figurativa un riferimento che serva come confronto, si può dire che il Cristo del bassorilievo anticipa, in forma di tragedia, l’imperatore della favola,  cui capita, come in certi sogni, di ritrovarsi nudo in una cerimonia pubblica. La gente non si rende conto di nulla nella magia della festa; in mezzo ad essa solo un bambino può rompere l’incantesimo, di cui  gli altri sono prigionieri. Senza volerlo, l’autore del bassorilievo ha interpretato lo stesso ruolo del bambino, spogliando il suo Cristo, insieme agli abiti, di sacralità e regalità.
   Il tema della nudità, debitamente variato e motivato diversamente, ricompare all’interno nelle paraste e all’esterno nelle lesene del portale, confermando il suo significato dissacratorio. All’interno, in mezzo a rosacee e altre figure, ci sono, debitamente distribuite fra le due pareti, due scene di ballo e due suonatori isolati, uno col doppio flauto (altrimenti detto launeddas) e l’altro con piffero e tamburo. I ballerini, in mezzo ai quali c’è una donna, e i suonatori, intenti a suonare i loro strumenti, sono vestiti a differenza del Cristo, ma hanno il fallo scoperto. Realismo da una parte e polemica sottintesa o dissimulata dall’altra sembrano mescolarsi in questi soggetti. Le scene di ballo conservano memoria  di quanto succedeva nelle chiese di periferia e di campagna, dove le feste religiose, occasione di raduno collettivo, si completavano nel ballo sardo, una sorta di rito laico, in cui ciascuno si sentiva officiante. Da sempre sinodi e concili avevano manifestato  contrarietà, e da sempre le cose si erano aggiustate in pratica. A San Bachisio succede qualche cosa di più: l’arte figurativa, profittando della  libertà di cui gode per la natura ambigua o implicita di certi suoi messaggi, afferma  la legittimità del ballo in un luogo di culto appartenente a tutti;  come si fa certe volte nel linguaggio comune, da un lato dissimula la provocazione e dall’altro la aggrava, servendosi nello stesso tempo del realismo della scena e dell’esibizione sessuale.
   Nelle lesene ai lati del portale ci sono invece quattro soldati o guerrieri; sono simili a sentinelle messe all’ingresso di un luogo di culto dove c’è un santo che, da militare, organizzava anche lui posti di guardia. Per complicare le cose hanno in mano la scimitarra, l’arma famosa dei turchi. Due dei quattro, quanto a nudità, si trovano nelle stesse condizioni dei ballerini e suonatori dell’interno, creando un groviglio interpretativo dove si possono trovare significati contrastanti. Si può cogliere nei bassorilievi esterni lo stesso intento dissacratorio che si è manifestato all’interno; si può pensare che essi servano ad attirare i demoni oppure ad impedire loro di entrare nella chiesa. Ed è evidente il richiamo anch’esso ambiguo a un’altra razza e a un’altra religione. Quasi trent’anni prima che fosse terminata la chiesa, si era svolta nel Mediterraneo orientale la battaglia di Lepanto. Ad essa aveva partecipato un reggimento portato dalla Sardegna, di cui si era parlato perché aveva dato l’assalto alla nave ammiraglia nemica, percorrendola da prua a poppa quando ancora era incerto il risultato. I soldati con la scimitarra conservavano in qualche modo il ricordo della sconfitta mussulmana; forse anche, come nel rovescio di una medaglia, denigravano e sostituivano simbolicamente i veri guardiani e responsabili  della chiesa.
    Alla nudità esibita e infantile di questi bassorilievi, che si trovano in un luogo di culto ma ignorano il senso del sacro, si contrappone la nudità tragica del Cristo, con le due donne ai suoi piedi. Esse non somigliano ai personaggi dei Vangeli  presenti per confortare il moribondo, anzi si ritraggono e guardano verso di noi, come se il dialogo  fosse tra noi e loro. Emergono dalla pietra per dire qualcosa di segreto e di sottinteso. Confermano a modo loro quanto scrisse un papa in una lettera famosa, giusto mille anni prima, parlando delle zone interne della Sardegna. L’idea del Figlio o dell’Uomo Dio non è mai entrata in qualche angolo della mentalità collettiva di un’isola, dove si è  sempre opposta  una barriera a quanto arrivava dall’esterno, ed è rimasto qualcosa della religione primitiva per cui solo la natura è eterna, rappresentata in una antichissima pietra da una donna indifferente che tiene in braccio il figlio morto. In questo quadro, che coesiste con la prima interpretazione, il sole che sorge non è più il simbolo della resurrezione, ma il grande astro che insieme rinnova la vita e apre un nuovo giorno di lavoro e di fatica. Forse per aggiungere realismo alla scena, il sole si trova nella parete di sinistra della chiesa, quella esposta verso la luce dell’alba, soprattutto nella primavera avanzata, quando a maggio si celebra la festa principale del santo.
   Il faccione di Bacco nel bassorilievo sottostante porta al cuore del problema, se si vuole trovare la ragione che ha reso possibile un luogo di culto così singolare.  Se i bassorilievi di cui si è parlato non si possono immaginare nelle altre chiese, come a San Francesco o a San Giovanni, che furono costruite nello stesso periodo o poco dopo nella parte opposta del paese, ciò è dovuto al santo cui la chiesa è dedicata, a causa del richiamo che egli  era in grado di esercitare sul  ricordo del dio pagano, al quale lo legava, in Sardegna e altrove, una doppia omonimia. Era un santo, anche lui venuto dall’oriente, dal destino complicato: quel “gloriosissimo martire san Bacco, che qui”, in Sardegna, “chiamano Bakis, compagno nel martirio di san Sergio”, come si legge in una storia scritta nel 1639 da Francesco de Vico, un alto funzionario sardo del governo spagnolo.         
    Bacco e Sergio erano due ufficiali di alto rango dell’esercito romano in Siria, dove prestavano servizio nel palazzo del tetrarca. Come succedeva spesso nelle varie comunità,  scoperti di essere cristiani e invitati secondo vecchie procedure a sacrificare agli dei, andarono incontro col rifiuto alla condanna. Il loro nome non fu legato, né nei primi momenti né dopo, a opere o virtù particolari, che la tradizione non ebbe neppure bisogno di immaginare. Né l’idea di gesta eroiche, magari di natura simbolica, fu suggerita dalla loro carriera militare, come invece avvenne per il loro contemporaneo san Giorgio; anzi fu conservato il dato del servizio prestato nel palazzo imperiale, che appare più burocratico che militare. Nonostante questo, la loro vicenda emerse dalla storia anonima dei martiri, e dalla Siria, terra di snodo tra le regioni orientali, da cui erano partiti i grandi apostoli nei primi tempi, la loro fama si diffuse per tutti i paesi del Mediterraneo. Nel 400, nella Frigia in Anatolia, attorno a un grande santuario fatto costruire dal vescovo sorse una località che prese il nome di Sergiopoli, dove i pellegrini accorrevano anche da luoghi lontani.  Più tardi nel 500, agli inizi del suo impero, Giustiniano fece costruire a Costantinopoli un altro straordinario santuario, che gareggiava in magnificenza col tempio di Pietro e Paolo. Oltre a queste, molte altre chiese  sorgevano dappertutto. Se si vuole trovare una spiegazione per l’importanza assunta dai due, rimasti  insieme nel ricordo e nel culto dei fedeli, non rimangono che i fattori particolari dati dal contesto storico e dalle modalità dell’esecuzione.
    Il tempo della loro vicenda si svolse verso la fine della prima decade del 300, assai vicino alla svolta storica del 312, quando il cristianesimo perseguitato diventò per decisione di Costantino religione ufficiale         dell’impero. Cadendo negli ultimi giorni del conflitto, i due rappresentarono l’epilogo di un’intera storia di persecuzioni durata due secoli e mezzo. Essi avevano anticipato la pacificazione voluta dall’imperatore, ricoprendo ruoli di responsabilità in un settore nevralgico come quello militare; e avevano realizzato ciò che i cristiani illuminati nei  loro scritti apologetici avevano sostenuto fin dal secondo secolo, che un buon cristiano era fedele e devoto all’autorità civile. Per secoli durante l’alto medioevo essi furono effigiati come ufficiali, nei quadri e nelle immagini che portavano i fedeli. Anche attraverso di loro il cristianesimo legittimava l’impero, di cui sentiva di avere preso il posto nel mondo, inclusa la sua organizzazione militare, che era stata in antitesi totale rispetto ai valori cristiani.
   La carriera militare, magnificata nello sviluppo del loro culto, sembra avere a che fare, nelle intenzioni dei persecutori, con un episodio inedito, che s’inserì  tra i rituali della condanna. Ne è rimasta memoria anche nell’inno che viene cantato per la festa di san Bachisio. I due compagni furono costretti a vestire abiti da donna e a circolare in pubblico tra lo scherno dei soldati e della gente. Questo fatto, valutato in termini di crudeltà, era insignificante rispetto alla flagellazione che anticipò la fine di Bacco, e ai chiodi ai piedi coi quali Sergio percorse l’accampamento prima di essere decapitato. Valutata invece come metafora, l’idea o la trovata del travestimento conteneva in modo abbastanza scoperto l’accusa di sessuofobia, che il mondo pagano rivolgeva al cristianesimo. Quest’ accusa era destinata a lasciare il segno all’interno di una religione monoteista, dove il cielo aveva il compito di circoscrivere e sovrastare la terra. Così un episodio in apparenza folcloristico concentrò l’attenzione sui due martiri, creata o favorita dalle circostanze storiche in cui la loro vicenda s’inquadrava.                                                                                                                                                                                                       
    La simbiosi fra Sergio e Bacco fu più importante delle altre, ma si rivelò anche piuttosto strana, perché nella diffusione del culto essi non ebbero la stessa fama o la stessa devozione. Le testimonianze in tal senso sono univoche; dai testi, anche se non si fanno paragoni, si vede facilmente che Sergio per numero di chiese e di reliquie, di miracoli e di nomi di battesimo, diventava più importante rispetto al compagno. Pare che i due come ufficiali avessero gradi diversi, e  il secondo fosse il vice del primo; ma una differenza di culto, che abbia origine nel diverso grado di carriera militare, sembra in contrasto con la sensibilità che si può attribuire alle comunità cristiane. A meno di non affidarsi al caso, rimane la questione del nome: uno dei due, quando veniva nominato e invocato, richiamava alla mente il dio pagano, il più lontano dalla nuova fede religiosa, il cui ricordo era meglio rimuovere. Spontaneamente e fatalmente questo metteva in primo piano la figura di Sergio.
    In Sardegna, o in alcune sue zone, la devozione popolare si orientò diversamente, perché era diversa la sensibilità verso l’antico nome del dio orientale; e la chiesa di Bolotana, collocata nel suo centro geografico, può essere considerata come il simbolo dell’importanza assunta dal santo cristiano per la relazione che, agli occhi della gente, si poteva stabilire tra questi e il dio pagano, anche a causa dei riferimenti indiretti che l’episodio del travestimento era in grado di creare. Questa importanza noi oggi cerchiamo di ritrovarla nelle pietre di una chiesa; in tempi passati osservatori attenti potevano vederla nei fatti attorno a loro. Parlando dei paesi della zona del Marghine, nella sua storia che in certe pagine somiglia a una relazione,  Francesco de Vico osservava che a Bolotana c’è “un insigne tempio”, dove a maggio si fa una festa “molto famosa perché giungono da tutte le parti del regno a questa santa chiesa moltitudini di genti a causa dei molti miracoli che per intercessione di questo santo ha operato Dio nostro Signore. I pellegrini fanno voto ogni giorno di visitare il suo santo tempio per invocare una grazia. Questa devozione si è accresciuta con il nuovo tempio che è stato fabbricato sopra l’antico dalle elemosine dei fedeli che accorrono alla devozione di questa santa chiesa”. Se la festa aveva il suo epicentro nel luogo di culto e nella corte attorno, l’influenza del santo si estendeva al di fuori, nella vita quotidiana del paese. Poco dopo il de Vico, un altro osservatore privilegiato, uno spagnolo che aveva la carica di vicario generale dei carmelitani in Sardegna, scriveva che “di tanto in tanto si trovano donne che dicono che un santo chiamato san Bacco entra loro in corpo e le altre donne vanno ad adorare a casa loro”.           
    Dalle parole del religioso spagnolo e dal comportamento delle donne che andavano ad adorare nelle case, si può cogliere il distacco tra una parte almeno del sentimento popolare e la posizione del clero. Queste donne non avevano mai sentito parlare delle antiche baccanti invasate dal dio, ma erano portate da tensioni analoghe a immaginare di ripetere un’esperienza simile. Con esse il culto del santo esce dalle chiese e si mescola con mentalità e tradizioni, da cui il culto ufficiale cerca di tenerlo lontano. In questo clima non potevano mancare le dicerie e le leggende con contenuti negativi, una delle quali, quella delle “sinigoghe”, ha resistito fin quasi ai nostri giorni. Erano anime di donne defunte, che abitavano sotto la chiesa e uscivano nelle sue vicinanze per impadronirsi delle anime dei viandanti, quando commettevano l’imprudenza di avvicinarsi a una chiesa, che poteva da un lato essere testimone di miracoli e dall’altro diventare un luogo pericoloso quando rimaneva nella solitudine.  Era chiaro che essa possedeva un duplice carattere, trasmesso da un santo che aveva, nell’immaginario collettivo, un collegamento col dio pagano.  I momenti in cui gli spiriti si risvegliavano  erano il mezzogiorno e la mezzanotte, le due ore opposte che invertono l’andamento del giorno e della notte.  La caratteristica principale delle “sinigoghe” erano le mammelle molto grandi e allungate, che si gettavano alle spalle quando affrontavano qualcuno. Dai bassorilievi, dalle donne invasate e dalle “sinigoghe”  vengono i riferimenti alla sessualità e a una femminilità contrastata. Il dio pagano dell’ebbrezza e il santo cristiano protagonista dell’episodio del travestimento, e dietro a loro il senso pagano e quello cristiano della vita si mescolavano  e richiamavano, a volte anche in forma diretta, questi temi.
   Non erano solo le donne raccontate dal vicario carmelitano a portare san Bachisio fuori dalla sua chiesa. Se si guarda con un po’ di attenzione, all’esterno e all’interno, qualche particolare insolito dell’edificio, si può pensare che i costruttori siano stati mossi più o meno consapevolmente dalle stesse idee e dallo stesso misticismo. Nella facciata ci sono due nicchie; probabilmente sono vuote da quattrocento anni, altrimenti sarebbe rimasto qualche resto o indizio delle statue. La ragione della loro assenza potrebbe essere banale: gli amministratori, ricevuta la chiesa dalle mani del suo costruttore, l’architetto Michele Puig, ritennero di aver già speso abbastanza con i soldi di una donna forestiera e dei benefattori locali. La presenza delle nicchie, dal punto di vista architettonico, conferisce un’identità alle due pareti laterali della facciata e insieme crea un movimento in senso orizzontale; senza di esse l’uniformità sarebbe rotta soltanto lungo l’asse verticale dal rosone e dalle decorazioni intorno al portale. Dalle nicchie sembra derivare anche la scelta di spostare il cornicione dalla base del timpano, dove dovrebbe stare, verso il basso; da esso partono dei rilievi, evidenti nella facciata, che salgono allargandosi verso la base delle nicchie e il rosone, come per offrire sostegno a questi elementi sospesi. Il tutto frena lo slancio verso l’alto della facciata, contrastando la tendenza e le regole dell’arte gotica, che pure è presente nella chiesa. Dietro la coerenza del disegno architettonico si nasconde la particolarità o l’anomalia del significato. Le nicchie, per accogliere le statue e attraverso di esse ricordare ai fedeli il loro santo, si trovano nelle pareti interne delle chiese. Ricavarle all’esterno dal muro della facciata fa acquisire ad esse un’altra funzione. Da queste nicchie, da dove i due santi avrebbero potuto, per l’orientamento della chiesa, guardare verso il paese e il suo centro religioso, si può passare, per associazione di idee, a una strana usanza che si ripete ogni anno durante le feste di maggio e ottobre. Il secondo giorno della festa una processione parte dalla parrocchia per portare la statua della Madonna a San Bachisio, da dove, finite le funzioni, riparte per portare la statua di san Bachisio in parrocchia. Il giorno dopo il percorso si ripete e i due santi si ritrovano nel loro luogo solito. Niente del genere avviene nelle altre chiese, il che significa che san Bachisio non viene considerato un santo come gli altri. Una volta all’anno ritorna nella chiesa parrocchiale del suo paese per ribadire il suo possesso, e pretende nientemeno che dalla Madonna che riempia il vuoto durante la sua  assenza.
   Se si entra all’interno e si dà uno sguardo d’insieme, avendo ai lati come elemento di confronto le cappelle spoglie e poco profonde dell’unica navata, si ha di fronte un retablo di legno policromo  di ampie proporzioni, che risalta dal fondo nell’intera chiesa;  e nel retablo risalta per le sue dimensioni la figura centrale di san Bachisio. Osservato da vicino, costituisce una fusione di statue e di elementi architettonici; colonne riquadri e volute compongono una struttura, che dà l’idea barocca di una facciata. La pittura acquista un suo ruolo nella policromia dei legni; quando si mette in proprio diventa un’arte minore, con una serie di tavole disposte alla base per tutta la larghezza, che hanno dimensioni ridotte e soggetti pittorici slegati fra loro. Una di queste tavole riprende o ripete un particolare del Giudizio Universale, san Bartolomeo che tiene in mano il coltello con cui è stato scuoiato, tenendone la punta verso l’alto. Il retablo è diviso in tre piani sovrapposti, che man mano si restringono e si riducono nelle dimensioni; l’ultimo, più quadrato che rettangolare, è sormontato da un timpano. Una doppia logica determina la disposizione delle statue, una dettata dall’altezza, l’altra dalla larghezza che rende possibili figure più grandi nel piano basso del retablo. In alto stanno le figure più importanti nella gerarchia ufficiale, in basso i santi più legati alla tradizione popolare. Nel riquadro sormontato dal timpano c’è una statua a mezzo busto: potrebbe essere Dio Padre, ma la posizione e il gesto del braccio destro richiamano anch’essi  il Cristo del Giudizio nella Sistina. Chiunque sia, appare piuttosto relegato e isolato dalla sua stessa altezza. Nel secondo piano ci sono tre nicchie e le statue sono di dimensioni modeste, benché i personaggi rappresentati siano, dal punto di vista dei dogmi e delle Scritture, di importanza fondamentale nella storia cristiana. Al centro c’è la Madonna, che offre il terzo riferimento alla Sistina; come la Madonna di Michelangelo si trova ai piedi di una figura più importante che la sovrasta. La Madonna del retablo non si ritrae  intimidita, ma si trova quasi interamente circondata da una specie di aureola, per cui la sua figura  risulta rimpicciolita, rispetto ai santi ai suoi lati e alle  dimensioni della nicchia; e forse  insieme con la figura  risulta diminuito il suo ruolo di figura centrale.  I due santi accanto ad essa dovrebbero essere Pietro e Paolo, che si ritrovano in un bassorilievo di uno degli archi trasversi nella volta.
    Il vero messaggio del retablo parte dal primo piano; in esso ci sono da esaminare le relazioni al suo interno e con le statue superiori. Anche qui le nicchie sono tre, secondo la logica architettonica che esclude il centro vuoto e il numero pari, ma i santi da collocare sono quattro, secondo la logica degli abbinamenti suggerita dalle circostanze. San Bachisio è  raffigurato con una statua visibilmente più grande rispetto alle altre, e per di più collocato sopra un piedistallo più alto. Egli inverte la gerarchia dei valori campeggiando nella visione della gente rispetto agli altri personaggi del retablo; e non si colloca come un semplice mediatore di grazie dispensate dal cielo, ma diventa il vero punto di riferimento dei fedeli. Alla sua sinistra c’è il suo compagno Sergio, che gli era rimasto fedele  arrivando in Sardegna.  Rimaneva un’altra nicchia, ma c’erano due santi, chiamati Marcello e Apuleio, da mettere con essi. I due, che secondo la tradizione erano padrone e servo, sarebbero morti  insieme ad Ischia, durante l’impero di Tiberio, il che vuol dire non più di dieci anni dopo la morte di Gesù. O sono personaggi leggendari, o la leggenda ha inventato per essi almeno il dato temporale. Comunque sia, essi  costituivano  in ordine di tempo la prima coppia di martiri in una serie chiusa dagli altri due. Anche per essi il legame che li aveva uniti in vita era stato consacrato dal martirio comune. E non è  un caso che la loro festa era stata fissata, anche nell’ultimo calendario liturgico, per il 7 ottobre, la stessa data di Sergio e Bacco. La soluzione trovata per rappresentarli  nel retablo è a suo modo sorprendente. Nella nicchia di sinistra c’è il solo Marcello, perché Apuleio viene messo nell’altra, dove si vede a malapena  essendo seminascosto da Sergio; sembra quasi che abbia trovato un secondo padrone, più autorevole del primo. Qui non è la diversa grandezza delle figure, che appare appena accennata, a esprimere l’importanza delle persone, ma la collocazione su piani diversi di profondità.  Si può  anche dire che gli autori del retablo, rappresentando i santi, introducevano i canoni del loro tempo, facendo pesare le differenze sociali,  che erano immutabili nella società contadina. Neppure diventando santo, Apuleio doveva dimenticare di essere stato servo.  Anche nel suo caso, nel modo di rappresentare i santi considerati più vicini, ritorna la commistione della loro storia con  mentalità  valori o  pregiudizi della società.  
   Il dualismo del retablo si ritrova in altra forma nel confronto fra i bassorilievi delle paraste, dove compaiono le cose della terra, dalle rosacee alla sirena ai balli, e quelli degli archi trasversi  in alto, dedicati ai temi religiosi.  Angeli e demoni, presenti nella metà dei bassorilievi,  si contendono il campo e si dividono le zone d’influenza: i primi più vicini all’ingresso, i secondi  più numerosi, collocati stranamente nel fondo.  Se gli angeli sono riconoscibili dalle ali, i demoni sono desumibili soltanto dalla presenza dei loro avversari.  In realtà queste figure nascevano dall’esperienza quotidiana  della società in cui vivevano i costruttori; c’erano persone a cui i traumi e i dolori della vita, contro cui non c’erano difese, deformavano insieme con lo spirito i lineamenti del corpo. Esse entrano  in qualche modo all’interno di San Bachisio,mescolandosi con santi e alberi simbolici, e pongono problemi inquietanti,  indicando che neppure la religione e le sue promesse riuscivano ad addolcire i dolori e a dare loro un senso. Nell’altra metà dei bassorilievi si trovano figure importanti della tradizione. Il primo e l’ultimo, in ordine di tempo, degli evangelisti, Marco e Giovanni, compaiono sotto le forme  del leone e dell’aquila. Due alberi, fondamentali nella storia della salvezza, sono disposti nei punti corrispondenti di due semiarchi: l’albero del paradiso terrestre, che produsse il frutto proibito da cui deriva il peccato originale, è mostrato da Adamo ed Eva; l’altro,che è una rappresentazione della chiesa  con cui la salvezza si compie, è sorretto dalle mani di Pietro e Paolo, il capo degli apostoli e il più grande degli asceti. Straordinaria, per capacità di penetrazione psicologica, è la rappresentazione della cerva inseguita dal cane, nella quale nel medioevo si  identificava l’anima perseguitata dalla tentazione dei vizi; essa, mentre il corpo corre avanti, ha la testa completamente girata indietro,  per poter almeno guardare il peccato da cui deve fuggire. Per mettere a confronto le due serie di bassorilievi si possono prendere come esemplari dei due gruppi la sirena bifida e il dragone. La prima, in basso, non è riuscita ad entrare nell’immaginario simbolico cristiano, forse perché l’arte di Omero ne ha legato la figura al mare e al mondo mediterraneo precristiano; il suo mito non si può proiettare facilmente in campo cristiano. Altro discorso per il dragone, che precede anche gli dei pagani, l’animale che strisciando vive in simbiosi con la terra da cui l’uomo è emerso, la linea retta che può trasformarsi in cerchio in ogni momento, la natura dove tutto comincia e finisce e gli estremi coesistono perennemente. Il cristianesimo, sostituendovi il serpente meno mitico e più reale, ne ha fatto il tentatore del paradiso terrestre, interprete di quella natura le cui forze non si riescono a controllare.
    Quattro archi trasversi costituiscono l’unico ornamento della volta a botte, e i bassorilievi costituiscono l’unico ornamento di questi archi, quanto al resto sagomati semplicemente e privi di modanature. Distribuendosi  tra gli archi e al loro interno, scene e figure rappresentate s’inseriscono, trovando una seconda funzione,  nella struttura architettonica,dividendo gli spazi ampi della volta in senso trasversale e anche longitudinale, e creando un ritmo con la loro simmetria. Dai piedistalli in basso partono poi le paraste molto alte, che separano le cappelle laterali, salendo per tutta l’altezza delle pareti fino all’innesto della volta.  Si può dire che la linea curva degli archi è la continuazione della linea verticale delle paraste, per cui il ritmo in basso creato dalla successione delle cappelle si ripete in alto con la separazione degli spazi della volta. I due elementi architettonici sono separati da una cornice, che corre ai due lati per tutta la lunghezza della chiesa. Le pareti sono relativamente alte, e la navata è piuttosto ampia, tanto da rendere legittimo il sospetto che abbia sostituito tre navate della chiesa precedente. In queste condizioni   la volta, che ha un  sesto acuto  non lontano dal tutto sesto, crea nel visitatore la sensazione del peso; sensazione confermata dai contrafforti esterni, che furono costruiti in periodo successivo alla chiesa, e all’interno dall’apertura di due corridoi inaccessibili sulla sommità delle pareti, la cui unica funzione è quella di alleggerire il peso.
   Il contrasto tra elementi visibilmente diversi ritorna all’interno della chiesa tra le cappelle laterali e il presbiterio, il quale, forse perché privo di uno spazio absidale dietro l’altare, si presenta anch’esso come una cappella. La sua pianta è quadrata, e l’impressione è che l’attenzione dei costruttori si sia concentrata su di esso distogliendosi dalle cappelle laterali. Negli spigoli  ci sono capitelli pensili, da cui  partono, salendo lungo le pareti, archi puramente ornamentali, che non hanno neanche l’apparenza di sorreggere un peso. Tra i  rami di arco che si allontanano tra loro,  sono stati costruiti pennacchi rimasti allo stato di abbozzo. Come le nicchie vuote della facciata, rivelano con la loro incompiutezza un progetto; nel loro caso era quello di coprire la cappella maggiore con una cupola, che per qualche ragione non si è fatta ed è stata sostituita da una più modesta volta a padiglione. Molto diversamente si presentano le cappelle laterali, che hanno pianta rettangolare, ed essendo ricavate dai muri perimetrali sono poco profonde. L’arco a sesto acuto sopra l’ingresso ha la sua funzione propria di sostegno,ma, inquadrato tra le paraste e la cornice sopra le pareti, acquista anche una funzione secondaria di ornamento.  Le cappelle sono spoglie e anonime, nel senso che non sono dedicate ad un santo, non essendoci posto nella chiesa per altri santi oltre quelli del retablo, per una ragione o per l’altra ricollegabili a san Bachisio, un martire antico che, per ragioni imprevedibili, si è trovato al centro di un culto particolare, un culto che ha reso difficile da interpretare anche la sua chiesa, costruita, come nel suo luogo ideale, nella zona centrale di un’isola misteriosa.

Foto di Paolo Grosso

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