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Coltivazione di canne per il bioetanolo:" è utile soltanto nelle zone da risanare". L'intervento di Copagri Sardegna

Copagri propone di sfruttare le aree inquinate del Sulcis per non danneggiare le colture alimentari

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La società milanese Mossi & Ghisolfi, come ampiamente pubblicizzato, ha avanzato la proposta di investire 220 milioni di euro nel Sulcis per la produzione di bioetanolo. L’investimento produrrebbe a Portovesme, a loro detta, ben 300 posti di lavoro e richiederebbe la coltivazione da 5.000 a 17.000 ha di canna comune. «Giova agli agricoltori sardi produrre canne anziché prodotti alimentari di cui la nostra Isola ha fortemente bisogno?», si chiede Ignazio Cirronis, presidente regionale di Copagri Sardegna. Ebbene la conclusione a cui arriva l'associazione agricola è semplice: NO. O meglio va bene la sperimentazione ma non a danno delle colture alimentari.

La Sardegna importa ogni anno circa 300 milioni di euro di prodotti agroalimentari con una bilancia commerciale fortemente negativa. Sono note le carenza produttive nei comparti della cerealicoltura, carni, specie bovine, olivicoltura, ortofrutticolo. È risaputo che varcano i confini dell’Isola, con cifre e volumi di un certo rilievo, pomodori e carciofi, vini, formaggi, agnelli. Per il resto importiamo di tutto. «Il tema della sicurezza alimentare, intesa come sicurezza degli approvvigionamenti, è sempre più all’attenzione dell’Unione Europea e degli Stati del mondo», aggiunge Pietro Tandeddu, coordinatore regionale dell'associazione agricola. «Già oggi 800 milioni di persone muoiono di fame e nel 2050 la Terra conterà 9 miliardi di abitanti. Ciò spinge i cosiddetti paesi in via di sviluppo come Cina, India e Corea ad accaparrarsi milioni di ettari di terre prevalentemente in Africa».

Per queste ragioni, e non solo, anche il consumo del suolo agricolo, la sua cementificazione, cominciano a destare qualche preoccupazione in più. In trenta anni, in Italia, i terreni agricoli sono passati da 18 milioni di ettari a 12; ce ne vorrebbero 61 per coprire i consumi nazionali. «Perché pensare allora alla coltivazione di canna, pianta che ha un certo fabbisogno idrico, e metterla in concorrenza (a Masainas, Tratalias, Giba e vicinanze) con il carciofo spinoso DOP?», prosegue Cirronis. «Chiediamo, per quel territorio e per l’intera Isola, un progetto agricolo serio con l’obiettivo di utilizzare pienamente le acque disponibili a fini alimentari. Nei comprensori di bonifica l’acqua registra, nelle aree attrezzate, un tasso di utilizzo sotto il 30%: è come se avessimo speso il triplo per dotare le zone agricole di impianti irrigui!».

PROPOSTA. Alla Mossi e Ghisolfi Copagri Sardegna propone un’alternativa, ovvero di sperimentare la coltivazione della canna comune nel Sulcis, a ridosso di Portoscuso e Portovesme,  dove vaste aree sono state inquinate e definitivamente compromesse per il forte tenore di metalli pesanti. Tutti ricordano le vicende delle uve al piombo che, per alcuni anni, hanno mortificato l’immagine di un’eccellenza come il Carignano. Si conducano lì, nella zona delimitata dal piano regionale di bonifica e quindi nelle aree interdette alle coltivazioni food, le sperimentazioni, sia da parte dell’Università che di Agris, cui la coltura della canna non è sconosciuta. Si vedrà nel proseguo se i produttori ne riconosceranno la convenienza ben sapendo di avere un unico acquirente il cui potere contrattuale sarà enorme nel dettare le condizioni contrattuali.
 

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