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Il lamento doloroso de sas atitadoras

Il pianto delle prefiche sarde, un’usanza scomparsa

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Sin dall’antichità i riti funerari hanno rappresentato i momenti principali delle diverse culture e religioni del mondo. In certi territori così come anche in Sardegna, il momento più triste di ciascuna famiglia era caratterizzato dalla presenza di alcune donne che dietro compenso eseguivano delle lamentazioni funebri, in italiano si chiamano prefiche, in sardo le conosciamo come atitadoras.
La partecipazione ai cortei funebri di queste figure, oggi pressoché scomparse, ha una tradizione antichissima, diffusa soprattutto in paesi come l’Italia (in particolare nel meridione), la Grecia, l’Albania, la Romania e l’Irlanda. Nell’antica Grecia erano soprattutto le famiglie ricche ad assoldare le prefiche, le quali portavano il lutto e piangevano intensamente il morto sostituendo i parenti che, durante le cerimonie funebri, mantenevano invece un atteggiamento sobrio e distinto.

Accadeva la stessa cosa nell’antica Roma: le prefiche seguivano i cortei funebri cantando le lodi della persona morta accompagnate dal suono del flauto. Il canto spesso era interrotto da grida di dolore e gesti di disperazione come battersi il petto con violenza e singhiozzare.

In Sardegna e in molte parti del sud d’Italia la presenza alle cerimonie funebri di queste donne si è riscontrata fino a poco tempo fa. Le prefiche, o atitadoras, venivano chiamate dai parenti del defunto, i quali generalmente ricompensavano queste donne con beni di prima necessità, diversamente dalla tradizione latina che prevedeva una retribuzione in denaro. Si recavano in gruppo a casa del morto, tutte vestite a lutto con il capo coperto da un fazzoletto nero; la salma, secondo la tradizione era posta al centro della stanza con il viso rivolto verso la porta. Attorno al defunto c’erano i parenti, seguiti da sas atitadoras, le quali ad un certo punto iniziavano ad atitare, cioè improvvisavano un canto, s’atìtidu detto anche canto venduto. Spesso anche i parenti atitavano, ma la vera “performance” del dolore veniva lasciata a sas atitadoras, le quali non a caso erano delle vere professioniste della morte. Un piagnisteo continuo che iniziava prima con un tono leggero e sommesso per poi crescere improvvisamente d’intensità con pianti e grida strazianti e gesti significativi quali scuotere la testa facendo ondeggiare le lunghe chiome, strapparsi i capelli, fino a buttarsi a terra simulando le convulsioni. Tutto ciò aveva la funzione di coinvolgere emotivamente le persone presenti, e difficilmente si restava indifferenti a tale visione.

Attraverso s’atìtidu si lodavano le virtù, il carattere, il coraggio, si evocavano episodi salienti della vita della persona morta, ma si cantavano anche le disgrazie che avrebbero potuto colpire la famiglia a causa di questa morte. Si cantava rigorosamente in rima, e ciò che stupisce è che spesso si trattava di donne analfabete, grandi improvvisatrici degne della più antica tradizione sarda. Infatti alcuni canti si sono tramandati oralmente per molto tempo.

Il contenuto de s’atìtidu variava a seconda della situazione, se si trattava di bambini, di adolescenti, di giovani padri o madri di famiglia, o di persone mature. Variava anche a seconda del tipo di morte, ovvero se si trattava di una morte naturale o di morte violenta, in questo caso, il lamento funebre assumeva delle connotazioni ancora più drammatiche in quanto spesso si invocava la vendetta.

Lo studioso francese Roissard De Bellet nel 1882 fece un viaggio in Sardegna e nella sua opera “La Sardaigne a vol d’oiseau”, descrivendo gli usi funebri del tempo, si sofferma proprio sulle atitadoras e sul ruolo che esse avevano nel risvegliare la sete di vendetta. De Bellet scriveva che le prefiche mediante il loro canto, senza paura, denunciavano le famiglie macchiatesi di omicidio, e incitavano le famiglie offese a vendicare il sangue versato in segno di riscatto e orgoglio. Riconosceva anche la pericolosità di tali incitamenti, definendoli “episodi di fanatismo”. Non è un caso se proprio in quegli anni erano le autorità religiose a scoraggiare la pratica de s’atìtidu perché ritenuta, oltreché pagana, anche pericolosa in caso di delitto. Furono soprattutto i missionari vincenziani e in particolare (negli anni venti del Novecento) padre Giovanni Maria Manzella a osteggiare in prima persona questa usanza. Padre Manzella fondò alcune associazioni in diversi paesi della Sardegna, e le persone iscritte si impegnavano a proibire tra le loro ultime volontà la presenza de sas atitadoras durante i rituali funebri.

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