MACOMER. Dopo settimane di assordante silenzio, è un ennesimo fatto di cronaca a riaccendere le luci sul Cpr di Macomer, la struttura regionale dove dall'inizio dell'anno vengono trasferiti ed incarcerati i migranti considerati irregolari che, secondo le norme vigenti, dovrebbero essere rimpatriati nei propri paesi di origine.
È il primo pomeriggio di giovedì 30 aprile quando l'elisoccorso del 118 arriva nell'area di Bonu Trau per effettuare un intervento all'interno del blindatissimo ed impenetrabile centro detentivo macomerese.
A terra c'è un ragazzo. È caduto da un muro di cinta facendo un volo di 5 metri. Verrà trasportato al pronto soccorso di Sassari e, nella stessa serata, dopo i controlli di rito, ricondotto al Cpr.
Cosa esattamente sia accaduto nell'edificio ministeriale gestito dal braccio italiano della società privata svizzera Ors non è chiaro e, vista l'assenza di comunicazioni ufficiali che dall'apertura ad oggi ha caratterizzato il Cpr di Macomer, non è da escludere che rimanga tale.
Si potrebbe trattare, e non sarebbe purtroppo il primo caso, di un tentativo di suicidio, ma anche di un incidente verificatosi durante una dimostrazione di protesta per l'ingiusta e prolungata detenzione.
Di certo sappiamo solo che quella stessa mattina il Giudice di Pace aveva deciso, per l'ennesima volta, di prorogare per altri 30 giorni il suo trattenimento nel Cpr, nonostante il suo legale avesse prodotto in udienza una proposta di assunzione come operaio generico presso uno stazzo della Gallura, un contratto di locazione ad uso gratuito per garantirgli l'alloggio e persino una petizione firmata da un gruppo di cittadini che da anni conoscono il giovane.
A differenza dei precedenti episodi, trapelati all'esterno del Cpr ma rimasti comunque avvolti nel reticolato della spersonalizzazione che sembra caratterizzare questi non-luoghi separati dalla società e chiusi dentro una bolla inesplorabile, questa volta c'è una storia.
Quel ragazzo caduto nel vuoto per 5 metri non è un numero, non è un elemento sconosciuto di una massa priva di forma. È una persona in carne ed ossa e fuori dal cancello del Centro c'è una famiglia allargata che teme per la sua vita e che lotta per riaffermare il suo diritto inalienabile all'esistenza.
Ha 28 anni, è originario del Benin, paese dell'Africa occidentale un tempo colonia francese, ed è approdato sulle coste della Sardegna nel 2015, fuggendo da quella che viene indicata come la seconda guerra civile libica, nella quale rimase anche ferito, colpito dall'esplosione di una granata.
Orfano di entrambi i genitori dall'età di 7 anni, costretto a lavorare sin da bambino per sopravvivere, nel 2010 era partito per la Libia per ricongiungersi con lo zio materno, che nel paese ancora governato da Gheddafi portava avanti un'attività edile, ed usufruire quindi di una occupazione stabile. La Libia, come ben sappiamo, da lì a poco sarebbe sprofondata nel caos più totale. Il ragazzo riuscirà, dopo 5 anni di permanenza, a salire su uno dei tanti barconi della speranza e ad approdare infine sulle coste dell'isola sarda.
La sua nuova vita dall'altra parte del Mediterraneo è contrassegnata dal percorso accidentato che attende tutti coloro che scappano dall'inferno: ospite prima del CAS di Cargeghe e poi di quello di Porto Pozzo, il giovane presenta la domanda per la protezione internazionale e grazie al permesso di soggiorno per richiedenti asilo riesce a trovare occupazione come giardiniere, operaio e muratore. Documenti sempre in ordine, nessun reato da scontare, sforzo di alfabetizzazione e una serie di impieghi lavorativi condotti con la massima serietà non sono però bastati a vincere la sfida contro un sistema perverso figlio di certe derive politiche che, servendosi della burocrazia, riducono gli esseri umani a scarti privi di valore.
Nel 2019 quel meccanismo di selezione si mette in funzione e per quel ragazzo arriva la revoca dello status che gli consente di stare in Italia. Tenta tutte le strade possibili per reiterare la domanda di asilo, ed intanto trova ospitalità nella famiglia isolana che sin dall'inizio ne ha seguito le orme.
Per un anno lo Stato, dopo averlo privato dell'attestazione formale che differenzia un uomo da un “clandestino”, non si curerà di lui.
L'apertura del Cpr di Macomer segnerà però la sua strada: il 3 di febbraio viene prelevato da Palau e trasportato nel centro del Marghine per subire quella “detenzione amministrativa” che nella realtà più spicciola e senza fronzoli lessicali corrisponde al carcere duro. Una pena esemplare per scontare non si capisce davvero cosa. Da 3 mesi privato delle libertà personali, con la prospettiva di un altro lungo mese certo da trascorrere recluso senza aver commesso reati e l'incognita del dopo. Dentro quel vuoto di 5 metri c'è un pieno di ragioni umane che dovrebbe richiamarci tutti, nessuno escluso, alle nostre responsabilità.
Quel ragazzo, secondo il sistema vigente in Italia, dovrebbe essere rimpatriato nel Benin, paese di origine dell'adolescente diventato uomo nel lungo viaggio verso un mondo migliore che, evidentemente, non è riuscito a trovare.
Oltre ai vincoli imposti dall'emergenza Covid-19, il meccanismo del rimpatrio sembrerebbe incepparsi anche per l'assenza dei famosi accordi bilaterali che farebbero da coronamento all'intera operazione.
Nella sua declinazione pratica però il sistema sembra percorrere altre vie, con un prolungamento dei tempi di detenzione per questi figli di un dio minore colpevoli solo di esistere e che, fino a prova contraria, sembrerebbero rappresentare il materiale umano necessario per tenere a regime i Cpr di nuova concezione.
Quello di Macomer vale più di mezzo milione di euro all'anno, esattamente 570.519,50 euro, per 50 “ospiti” detenuti: questa è la cifra corrisposta dallo Stato alla Ors Italia per la gestione della struttura regionale sarda.